Federico Baschirotto è cresciuto fra strade accidentate e terreni impervi. Non è nato mettendo la palla all’incrocio ad occhi chiusi e nemmeno dribblando compagni e avversari come fossero sagome. Il fratello Francesco è il vincitore dell'ultimo Pallone d'oro.
Non è mai stato preso per mano in un settore giovanile professionista, a parte una stagione al Chievo. S’è fatto da solo Baschirotto, a 25 anni il terzino destro titolare dell’Ascoli oggi ai playoff. Al primo assaggio di B, dopo aver ballato in Interregionale e in Lega Pro fra Legnago, Cremonese, Seregno, Forlì, Cuneo, Virtus Carpaneto e Viterbese. Cadendo e rialzandosi, su e giù per l’Italia. A correre sempre senza mai rifiatare. A cercare di andare sempre più forte. «Soprattutto ci ho sempre creduto», la regola di Baschirotto ieri, appena finito l’allenamento, dopo la mezzora giocata a Lecce in attesa domenica del Frosinone. C’è tempo per un tuffo all’indietro. E per riavvolgere il nastro della sua vita.
Il suo primo campo da calcio?
«Naturalmente quello del Circolo Noi a Nogara. Fino a cinque anni io ho giocato lì. A casa mia».
La partita fra i dilettanti che non dimenticherà?
«Più che una partita direi una stagione. Quella in Serie D col Legnago grazie alla quale entrai a far parte della nazionale dilettanti Under 17. Il primo grande passo del mio percorso. Alla fine del campionato tante società iniziarono a seguirmi. Fu allora che capii davvero che sarei potuto diventare un calciatore professionista».
Il momento più difficile?
«Parecchi. A partire dai due anni di Serie C quand’ero sotto contratto con la Cremonese. Uno a Cuneo, l’altro a Forlì. Finito di andare in giro la Cremonese il contratto non me lo rinnovò, per di più non ricevetti offerte particolarmente interessanti dalla Lega Pro. Ero in sospeso, ma qualcosa dovevo fare».
Quindi?
«Feci un passo indietro, augurandomi che mi sarebbe servito per farne poi due avanti. Ricominciai dalla D, dalla Vigor Carpaneto. Fu la scelta giusta perché feci assai bene e l’estate dopo mi prese la Viterbese dove ho trascorso due anni splendidi. Lì tutto è davvero ricominciato».
Il suo grande pregio?
«Credo la determinazione, specie quando non sai se tutti i tuoi sacrifici verranno davvero premiati un giorno. Quando sei da solo in camera, lontano da casa e dalla tua famiglia, senza alcuna certezza. Quando ogni allenamento e ogni partita valgono molto. In quei casi qualche dubbio te lo poni, ma al tempo stesso darti delle risposte. E continuare ad avere fiducia».
Più facile arrivare o confermarsi ad alti livelli?
«Tutte e due, almeno per quella che è stata la mia esperienza. La verità è che nessuno ha mai davvero creduto in me, ho sempre dovuto far fatica ed arrangiarmi da solo. Sempre sotto esame. Ho sempre tirato dritto per la mia strada, da ragazzo ambizioso quale sono sempre stato».
Curiosità: com’era Udogie da bambino?
«Ero il suo animatore, al Circolo Noi. Sgambettava forte già allora, come fa adesso in Serie A».
C’è stato un momento in cui suo fratello è stato più bravo di lei?
«Non parli al passato, io ritengo che tutt’ora Francesco abbia più talento di me. E anche lui vuole arrivare in alto. Ci sta soffrendo pure. Il fatto che ora sia in Serie D col Caldiero in ogni caso non significa che non potrà avere, prima o poi, una carriera migliore della mia».
Che gli ha detto quando ha vinto il Pallone d’Oro?
«Di credere nei sogni. I miei sono anche i suoi. Il premio se l’è meritato tutto, dopo la grande stagione che ha giocato».
Vivere da professionista che vuol dire?
«Sacrificarsi, prima di tutto. E lavorare duro tutti i giorni. Io vivo di calcio, questo dice ora la mia vita. Soprattutto questo quindi devo cercare di fare al meglio. Non sono un talento cristallino, devo estrarre da me stesso tutto quello che ho dentro».
Il salto più complicato?
«Tutti i passaggi di categoria comportano delle difficoltà, la differenza la fa la capacità di farsi trovare pronti ed alzare l’asticella».
Calciatori si nasce o si diventa?
«Se hai grandi qualità devi comunque coltivarle, se non ne hai tantissime devi in ogni caso provare con tutte le tue forze ad alimentarle. La costante è l’impegno feroce. E la capacità di crederci sempre, come ho fatto io».